domenica 30 giugno 2013

Arsenij Aleksandrovic Tarkovskij



 E’ stato un poeta e traduttore russo, di origine ucraina , padre del famoso regista Andrej Arsen'evič Tarkovskij. Alla fine degli anni venti Arsenij Tarkovskij inizia la collaborazione con alcune riviste e scrive drammi per la radio sovietica. Nel 1932, accusato di misticismo, deve abbandonare il suo lavoro e si dedica quindi all’attività di traduttore dall’arabo, dall’ebraico, dall’armeno, dal georgiano, dal turkmeno e da altre lingue ancora. Inizia, sempre in quel periodo, a frequentare Anna Achmatova e Osip Mandel'štam, attirando su di sé ulteriori attenzioni da parte del regime, che gli costeranno una censura durata sino agli anni sessanta. Arruolato come soldato nella seconda guerra mondiale, nel 1943 viene insignito dell’Ordine della Stella Rossa per il suo eroismo in battaglia e in seguito, gravemente ferito, deve subire l’amputazione di una gamba. A partire dal 1962 inizia la pubblicazione delle sue poesie, che consisteranno in una decina di raccolte in tutto. Muore a Mosca nel 1989.
 
“che si avverino i loro desideri... che possano crederci,
e che possano ridere delle loro passioni!
Infatti, ciò che chiamiamo passione in realtà non è energia spirituale,
ma solo attrito tra l'animo e il mondo esterno.
E, soprattutto, che possano credere in se stessi,
e che diventino indifesi come bambini:
perchè la debolezza è potenza,
e la forza è niente.
Quando l'uomo nasce è debole e duttile,
quando muore è forte e rigido.
Così come l'albero, mentre cresce, è tenero e flessibile,
e quando è duro e secco, muore.
Rigidità e forza sono compagni della morte;
debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell'esistenza.
Ciò che si è irrigidito non vincerà.”
 
 
 
Primi Incontri
Ogni istante dei nostri incontri
lo festeggiavamo come un’epifania,
soli a questo mondo. Tu eri
più ardita e lieve di un’ala di uccello,
scendevi come una vertigine
saltando gli scalini, e mi conducevi
oltre l’umido lillà nei tuoi possedimenti
al di là dello specchio.
Quando giunse la notte mi fu fatta
la grazia, le porte dell’iconostasi
furono aperte, e nell’oscurità in cui luceva
e lenta si chinava la nudità
nel destarmi: "Tu sia benedetta",
dissi, conscio di quanto irriverente fosse
la mia benedizione: tu dormivi,
e il lillà si tendeva dal tavolo
a sfiorarti con l’azzurro della galassia le palpebre,
e sfiorate dall’azzurro le palpebre
stavano quiete, e la mano era calda.

Nel cristallo pulsavano i fiumi,
fumigavano i monti, rilucevano i mari,
mentre assopita sul trono
tenevi in mano la sfera di cristallo,
e " Dio mio! " tu eri mia.

Ti destasti e cangiasti
il vocabolario quotidiano degli umani,
e i discorsi s’empirono veramente
di senso, e la parola tua svelò
il proprio nuovo significato: zar.

Alla luce tutto si trasfigurò, perfino
gli oggetti più semplici - il catino, la brocca - quando,
come a guardia, stava tra noi
l’acqua ghiacciata, a strati.

Fummo condotti chissà dove.
Si aprivano al nostro sguardo, come miraggi,
città sorte per incantesimo,
la menta si stendeva da sé sotto i piedi,
e gli uccelli c’erano compagni di strada,
e i pesci risalivano il fiume,
e il cielo si schiudeva al nostro sguardo"

Quando il destino ci seguiva passo a passo,
come un pazzo con il rasoio in mano.
 
Vita, vita
 I
Non credo nei presentimenti e dei segni
non ho paura. Né la calunnia né il sarcasmo
io fuggo. Nel mondo non c’è la morte.
Tutti sono immortali. Tutto è immortale.
Non bisogna temere la morte né a diciassette anni
Né a settanta. Esistono solo la realtà e la luce,
in questo mondo non ci sono né buio né  morte.
Noi tutti siamo già sulla riva del mare
ed io sono tra quelli che tirano le reti
mentre passa a branchi l’immortalità.
II
Vivete in casa – e casa non crollerà.
Io evocherò uno qualunque dei secoli,
entrerò in esso ed in esso una casa costruirò.
Ecco perché sono con me ad un unico tavolo
i vostri figli e le vostre mogli.
Ma c’è un unico tavolo per il bisnonno e per il nipote.
Il futuro si compie ora
e se io sollevo la mano
tutti e cinque i raggi rimarranno presso di voi.
Io ogni giorno del passato, come una puntellatura,
con le mie clavicole ho sostenuto,
misurai il tempo con la catena dell’agrimensore
ed attraverso esso sono passato, come attraverso gli Urali.
 III
Io mi sceglievo il secolo secondo la grandezza.
Andavamo al sud, alzavamo la polvere sopra la steppa;
l’erbaccia fumava; il grillo campestre faceva il birichino,
toccava con i baffi i ferri dei cavalli e profetava
e, come un monaco, minacciava per me la rovina.
Io il mio destino alla sella allacciavo;
io, anche adesso, in epoche future,
come un bambino mi solleverò sulle staffe.
Sono soddisfatto della mia immortalità,
che il mio sangue scorra di secolo in secolo.
Per un angolo sicuro di costante calore
io avrei arbitrariamente pagato con la vita,
qualora il suo mobile ago
non mi avesse, come filo, condotto per il mondo.

 

Invito


Marceline Desbordes-Valmore




 
 
 
"(…) con voce alta e chiara proclamiamo che Marceline Desbordes-Valmore è semplicemente – con George Sand, così diversa, dura, non priva di affascinanti indulgenze, di alto buon senso, di fiero e per così dire maschio portamento – la sola donna di genio e talento di questo e di tutti i secoli, in compagnia forse di Saffo, e di Santa Teresa."
 
Scrisse così Paul Verlaine in modo lapidario ma efficace, concludendo il suo articolo, il primo della seconda serie, dei suoi Poètes Maudits, su Marceline Desbordes-Valmore (1786-1859). Il percorso critico di Verlaine, pertanto, cercava di ampliare il discorso già iniziato da Baudelaire e da Rimbaud, su una poeta-donna, definita “église aux cent chapelles”, ma imponeva l’attenzione al grande magma di qualità che possedeva: madre, ragazza e “inquieta ma sincera cristiana. La lettura della sua opera destò in Verlaine un sommovimento, una grazia cara, poiché “cade dalle mani la penna mentre lagrime deliziose bagnano «le nostre zampe di gallina». Ci sentiamo impotenti a sezionare oltre un simile angelo”. Ma tempo prima, anche Victor Hugo nel 1821 appuntò: “Mi sembra che la signora Desbordes-Valmore non abbia ancora ottenuto se non la metà del trionfo che spetta a un talento quale il suo; i suoi versi appassionati vanno al cuore; imprima loro un carattere religioso, e toccheranno l’anima”, e Lamartine successivamente dirà: “(…) L’uccello che imita la voce, ti ha prestato il suo lamento e i suoi canti…”.
Chi è  Marceline Desbordes-Valmore? Qual è la genesi del suo verso?
Sainte-Beuve può segnare i passi di una comprensione: “Se qualcuno è stato ben dotato fin dall’inizio, è proprio lei: essa ha cantato come canta l’uccello (…) senza altra scienza se non l’emozione del sentimento, senza altro mezzo che la nota naturale (…). Da ciò, nei suoi primi canti soprattutto (…), qualcosa di particolare e di inatteso, di una semplicità un poco strana, di un’elegante ingenuità, di una passione ardente e candida …”
La forza dell’opera di questa donna risiede in una purezza vibratile e rigorosa, un canto che tocca la superficie delle cose e della realtà, per intessere una vaghezza di voce e una sperdutezza roca, come scrisse Baudelaire: “Se il grido, se il sospiro di un’anima eletta, se la disperata ambizione del cuore, se le facoltà improvvise, spontanee, se tutto  ciò che è gratuito e viene da Dio è sufficiente per fare un grande poeta, Marceline Desbordes-Valmore è e sarà sempre un grande poeta (…) un’improvvisa bellezza, inaspettata, ineguagliabile vi apparirebbe, ed eccovi irresistibilmente elevato nel cielo della poesia. Nessun poeta fu mai naturale, nessuno fu mai meno artificiale”. L’intervento di Baudelaire mette l’accento sul movimento poetico, non solo della Desbordes-Valmore, ma di ogni gesto artistico: la gratuità e la febbre di un’obbedienza.
Poetessa, cantante e attrice, nata a Douai, una piccola città della Fiandra francese, di famiglia piccolo-borghese, sperimentò nella sua esistenza l’esodo familiare, il disagio e la miseria di un vagabondaggio, che la spingerà, poco prima della morte della madre, persino a Guadalupe. La conoscenza di Henry Latouche, scrittore e commediante, è la sua follia e il suo tormento. Il varco verso la voragine di un colpo fermo, così come  il suo “Olivier” della profondità del cuore. Nonostante il matrimonio con Prosper Valmore nel 1817 e i quattro figli, di cui tre morti prematuramente, è nella stanza di Henry che dimora il fiore della poesia, la sua vorace bellezza e la sua sospensione di sogno:
«Librati, anima mia, su questa folla ignara. / Libero uccello immergiti nel cielo spalancato».
Il cielo di Marceline è madreperlaceo, come il candore violento di un’anima lieve:
«Quel gran soffio d’amore dentro il bacio che anelo/ dalle tue labbra chiuse, io non lo so rapire. / Se tu me ne fai dono, avrò giù terra in cielo/ Ma il tuo sonno si ostina. E tu mi fai morire».
La purezza si accompagna sempre a una passione per l’umano, alla vivezza di un amore che si imprime, come cantico, alla traversata di una domanda e di una voce di tempo:
«Cercarsi, cogliere uno sguardo furtivo, non è già tutto? / E più non domandarmi, con mesto sorriso, / il fiore che danzando trattengo mio malgrado: / lo sento sul mio cuore quando il cuore lo desidera, / e mi si legge negli occhi che lo colsi per te».
Il fuoco della controversia è il parto di un’anima sofferente, lontana nel tempo e nello spazio: «Sarà, lagrima dopo lagrima, e tormento su tormento, /il puro parto delle anime sofferenti».
La corporeità del cuore raggiunge l’incorporeo acceso della condizione umana, come scrisse Honorè de Balzac: “Marceline ha pertanto conservato il ricordo di un cuore che sente pienamente riecheggiare, lei e le sue parole, lei e le sue poesie, giacchè siamo dello stesso paese, Signora, del paese delle lacrime e della miseria”.
Ma il suo lamento non è lo schianto di un’anima. Ma il limite dell’anima. Come ha giustamente osservato Giuseppe Pintorno, fine traduttore dell’opera di Marceline, la sua voce: “via via ride gioiosa, o velata di nostalgia e rimpianto, o resa quasi afona dal dolore; specchio dell’anima, dell’emozione d’amore: amore di donna, di figlia, di sorella, di madre. Ma sempre voce d’amore”.
Ecco l’origine del suo testo cantato come germoglio. Il velo della gioia e l’afonia del dolore colorano il suo cielo, in una campitura trafitta e fragile che sostiene la volta del suo amore indicibile, che arde e desidera compimento, e, nel contempo, dipinge paradisi.
È l’elegia che incarna il tempo, l’autentica cantica esiliata che grida nei bagliori. L’abbandono totale, l’anelito senza scampo alla felicità suprema contemplano la naturalezza di una forza, infilata negli squarci d’eterno.  Un sogno che smarrendosi e ferendosi, si ritrova.
Il fragile roseto che invade il suo interno appare la stanza di un’onda fuggitiva che impagina i colori dell’anima, come il grembo di un fiore prezioso, solcato dai fumi dello stesso male che la portò via.
La fragilità di una donna che ama non è debolezza sentimentale di una sorda lagnanza, ma la potenza di un cuore che piove sul tempo, che non censura la storia, per diventare poesia autentica e gesto sospeso. Il suo grido e il suo ricordo, la «mobile frescura» di una sinestesia annidata nei tremori dell’abisso.
       Liberamente tratto da  un articolo di Andrea Galgano Docente e critico letterario
                                                                                                                                                  
CONFESSIONE DI UNA DONNA
Signora, sapete perchè
non vi ho voluto vedere?
Amo. E una donna, per sé,
teme dell’altre il potere.
Il vostro? È in codesta malía,
che occorre, per forza adorare.
E lagrime di gelosia,
io, non volevo versare.
Dovunque lo attenda, il mio amore
dovrà, ma da solo, venire.
Ho dato, a lui solo, il mio cuore.
Nel suo bene, è il mio solo avvenire.
Si accieca per ogni altra fiamma,
chi veda i vostri occhi bruciare.
E trema, perché se ne infiamma.
Ma io, non volevo tremare.
In quella gran folla asservita,
di cui respirate gli incensi,
sentito svanir la mia vita
avrei, di tra brividi intensi.
Colui, per cui trèpido tanto,
per cui sono pronta a morire,
chiederebbe il perché del mio pianto.
Ed io, non volevo mentire.
Se il cuore, fra tante conquiste,
avete a qualcuno donato,
d’un tratto, sentendosi triste,
non ha dunque mai trepidato?
La donna più bella o crudele,
può amare, ma senza soffrire?
Si muore, per un infedele,
ed io non volevo morire.
 
 
 
  La memoria
Taci, sorella, ché il passato brucia.
Taci il suo nome, ché il suo nome è lui.
Ostinarsi sui beni perduti
è come andar con l’onda che ripiega.
Quel nome che mi è ardore e mi è dolcezza
quel nome, quando appena ora mi tocca,
come un fuoco mi avvampa nella bocca.
Sorella, non parlare.
Vedi, da donna, un cuore di donna
in fondo ai nostri occhi costernati:
a spegnersi alla fine condannati,
troppa febbre la fiamma se ne porta.
Di questo male la tortura forte
inflessibile l’uomo a lungo regge,
e se ci vieta, con spietata legge,
la sofferenza, ci concede morte.
Come conosce, lui, l’amara scienza
di offrir menzogne anche al suo stesso amore;
quanta furia lo nutre, e che rancore
contro il suo antico idolo s’inventa.
Come c’investe, a volte, l’aspro fiato
del suo odio… se nel suo delirio,
perché non me ne offrisse Dio vendetta,
ad alta voce non l’ho mai gridato.
Ché per lui verso, inesaurita fonte,
un pianto che somiglia a una preghiera;
in essa amore a carità si fonde
che dell’amore è la radice vera.
Che fede ti vibrava nell’accento,
giovane voce subito spergiura!
Ne parlo a Dio e taccio il tradimento
perché ti ami quanto t’amo io.
La fresca impronta m’è rimasta in cuore
di ciò che il suo candore un tempo è stato.
E quando Dio peserà il mio cuore
quel vuoto eterno, insieme, avrà pesato.
Non è più lui, nemmeno ai propri occhi,
e chi ha avuto il suo omaggio s’è ingannato.
Lo compiango: ma solo un giorno, in cielo,
gli ridarò il bel viso ritrovato.
Elegia

Ero tua ancor prima di averti veduto.
La mia vita, al suo nascere, fu promessa alla tua;
me lo rivelò il tuo nome con un turbamento improvviso,
l'anima tua vi si celava per risvegliare la mia.
L'intesi un giorno e ne persi la voce;
a lungo l'ascoltai senza rispondere.
Il mio essere con il tuo, eran tutt'uno;
per la prima volta mi sentii chiamata.
Sapevi tu quel prodigio ? Ebbene, senza conoscerti,
mi rivelò l'amante, il mio signore,
e ti riconobbi sin dai primi tuoi accenti,
quando venisti a rischiarare i miei languenti.
La tua voce mi fece impallidire, chinai lo sguardo;
e in quello sguardo muto si unirono le nostre anime;
in fondo a quello sguardo si rivelò il tuo nome,
che senza chiedere riconobbi !
Da allora, attonita, ne subii l'incanto,
e a esso sottomessa, per sempre incatenata.
Esprimevo per lui i più dolci sentimenti;
l'univo al mio per suggellare i giuramenti.
Ovunque lo leggessi, quel nome incantatore,
e lacrime versavo:
di magica lode sempre soffuso,
ai miei occhi abbagliante si offriva.
Lo scrivevo...presto più non osai,
e il mio timido amore lo cangiava in sorriso,
mi cercava la notte, cullando il mio sonno;
e ancora intorno mi risuonava al risveglio;
era nel mio respiro e quando sospiro
è lui che m'accarezza e che il mio cuore respira.
Nome amato ! Tenero nome ! Oracolo del mio destino !
Ahimè! Come mi piaci, come mi tocca la tua grazia !
Mi annunciasti la vita e, unito nella morte,
come un ultimo bacio chiuderai la mia bocca.
 



 






 

mercoledì 19 giugno 2013

"Il treno per Erfurt": le foto


Ecco le foto scattate durante la presentazione del romanzo "Il treno per Erfurt" di Ermanno Crescenzi

 

































 

Angiolo Orvieto



Poeta italiano (Firenze 1869 - ivi 1967). Giornalista, critico letterario, librettista, attivissimo promotore di cultura, instancabile nelle sue iniziative culturali, incise con continuità, se pure non in termini eclatanti e clamorosi, nella vita letteraria e artistica della Firenze giolittiana. Si laureò in filosofia classica presso l'Istituto di studi superiori di Firenze, mentre altre parallele esperienze ne segnarono la formazione, come il soggiorno a Berlino del 1887 e l’organizzazione di circoli goliardici. A soli venti anni fondò la Vita Nuova (1889-91), periodico volto al recupero dell’arte in chiave soggettiva e intimistica; fra i molti collaboratori vi furono anche  Pirandello e Pascoli, che vi pubblicherà le prime Myricae. Con il 1896 iniziò la più nota rivista di Orvieto, Il Marzocco (1896-1932): nato sotto l’egida di D’Annunzio, si rivelerà ben presto come la testata più rappresentativa della borghesia colta fiorentina del primo Novecento. Nel 1901, dopo una breve condirezione, O. ne affidò la gestione al fratello Adolfo, pur rimanendo fra i principali collaboratori. Già da alcuni anni si dedicava all’attività poetica e letteraria; alle raccolte La Sposa mistica e altri versi (1893) e Il Velo di Maya (1898) seguì Verso l’Oriente (1902), ispirato dal lungo viaggio intorno al mondo del 1897: quasi una ricerca, non solo metaforica, delle proprie radici. Nel 1899 O. sposò Laura Cantoni (1876-1953), destinata a divenire una nota scrittrice per l’infanzia. Nuovi interessi e attività incalzavano. Nei primi anni del nuovo secolo i libretti d’opera: dalla collaborazione con il musicista G. Orefice nacquero Chopin (1901), Mosè (1905), Il pane altrui (1907). Ma soprattutto O. diede vita a numerose e dinamiche associazioni culturali, come la Leonardo da Vinci, nel 1902, poco dopo la Brigata degli amici dei monumenti, quindi, nel 1908, la Società per la ricerca dei papiri greci e latini in Egitto e, nel 1911, la Società per l’esercizio del Teatro Romano di Fiesole, che condusse nello stesso anno all’effettivo ripristino dell’antico luogo scenico. Per tutta la durata del primo conflitto mondiale O. si occupò della salvaguardia dei monumenti, ma soprattutto dell’Ufficio notizie per le famiglie dei combattenti e delle Opere di assistenza civile. Gli impegni pubblici lo allontanarono in parte dall’attività poetica: dopo Le Sette leggende (1912) sarà necessario attendere il 1928 per un nuovo volume di versi, Il vento di Siòn. Canzoniere d’un ebreo fiorentino del Cinquecento. Sarà la migliore prova poetica di Orvieto. Frutto dell’approfondimento della cultura ebraica sotto la guida di U. Cassuto e C. Glass, è recensita dallo stesso Montale e salutata come nuovo corso della sua attività lirica. Nel volume il protagonista, proiezione figurata dell’autore, si farà portavoce di aspirazioni e conflitti intimi dello stesso Angiolo, nel non risolto dualismo fra italianità e ebraicità. Nel corso degli anni Trenta O. pubblicherà, sulla linea della poesia toscana, Il Gonfalon selvaggio (1934) ma, in parallelo, continuerà ad affrontare nel privato l’ispirazione ebraica, con i versi poi in gran parte raccolti nei Canti dell’Escluso (1961), e con una serie di poemetti dedicati ai Profeti, in parte inediti. Angiolo e Laura O.  trascorsero i momenti più duri delle persecuzioni razziali, fra il novembre 1943 e l’ottobre 1944, nascosti nel ricovero di S. Carlo, fondato dal cappuccino Padre Massimo presso Borgo S. Lorenzo. Nel secondo dopoguerra l’attività di O. conobbe un rinnovato entusiasmo: nel 1950, con A. Levasti e G. La Pira, fu fra i fondatori dell’Amicizia ebraico-cristiana, associazione che lo vide perseguire, con equilibrio patriarcale, comuni valori di fratellanza e comprensione al di là delle cesure politiche e religiose.
                                                                 Tratto da Treccani.it
 

Grandi cumuli di rose,
di giunchiglie, di verbene,
di gerani e tuberose,
la mia gondola contiene.

Essa fissa nell'aurora
che sorride sul canale,
che i palazzi grigi sfiora
col suo bacio d'immortale.

Presso ad una testa bionda
che fra le verbene affonda
e di rose s'incorona,
il mio capo s'abbandona.

E la gondola ci culla
tutti e due soavemente,
ma la pallida fanciulla
nulla vede e nulla sente.

Chiuse son le lunghe ciglia
sovra il sogno mattutino,
ella sembra una giunchiglia
sotto il cielo cilestrino.

Nell'aurora, fra gli odori
dei bei cumuli di fiori,
questa gondola mi porta
con la mia diletta morta
 
 
Mammole di Febbraio
Mammole colte lungo un fossatello
a metà di febbraio
col piede snello e il cuor di gemme gaio.
Or tra due fogli languono appassite.
Da quarant'anni? Non so, nè me ne importa
Febbraio sta di nuovo sulla porta
con le sue violette rifiorite.



 
 

martedì 18 giugno 2013

Luisa Giaconi

 

Nacque a Firenze nel 1870 da Carlo e da Emma Guarducci. Di famiglia di origini nobili, ma non ricca, ebbe un'infanzia disagiata, costellata di rinunce e privazioni. Dopo una prima educazione ricevuta presso un istituto fiorentino, abbandonò la città natale a seguito degli spostamenti in molte zone dell'Italia centrale del padre, professore di matematica negli istituti tecnici. Dopo la morte di questo la G. poté rientrare a Firenze e terminarvi gli studi conseguendo il diploma dell'Accademia di belle arti. La sua principale attività lavorativa, che le permise di condurre una vita dignitosa, anche se modesta, fu quella di copista di quadri famosi presso i musei e le gallerie fiorentine dove trascorreva le sue "taciturne giornate" (così definite da uno degli amici più devoti, Angiolo Orvieto) nella contemplazione dei pittori antichi: attraverso l'ammirazione rispettosa ed entusiasta dei capolavori dell'arte e della cultura mondiale, si andava affinando la sua anima di poetessa e pittrice sensibile e inquieta. Indicata da più voci come pittrice di mediocre spessore, fu nella sua produzione poetica (pubblicata in maniera discontinua dalla rivista letteraria fiorentina Il Marzocco) che la G. raggiunse l'apice della propria sensibilità artistica e della propria creatività. La G. per prima ebbe a dire che la sua formazione letteraria era stata insufficiente: tuttavia, nelle sue composizioni poetiche sono evidenti gli insegnamenti delle scuole parnassiane e simboliste francesi e dei preraffaelliti inglesi, che aveva imparato ad amare e apprezzare grazie soprattutto alla frequentazione dei salotti di alcune famiglie inglesi stabilitesi da tempo nel capoluogo toscano. La sua poesia, pur non ricorrendo mai ai toni troppo forti e risolvendosi anzi in occasioni di intima e privata riflessione, si legava in maniera esemplare e definitiva al lirismo pascoliano e dannunziano. Assai vicina agli intellettuali del Marzocco (Orvieto, G.S. Gargano ed E. Nencioni, del quale si definì sempre allieva), la G. risentì sicuramente della teoria estetica di matrice schopenhaueriana che poneva in primo piano e dava gran risalto al rapporto tra pittura, poesia e musica. L'amore per i metri classici e la riproposta che ne aveva offerto G. Carducci la condussero, inoltre, a curare particolarmente l'assetto metrico e l'aspetto lessicale delle sue composizioni, senza tuttavia mai riuscire a raggiungere la perfezione formale. Colpita in età giovanissima da una grave malattia, la G. morì a Fiesole il 18 luglio 1908. L'anno successivo alla morte le sue poesie furono riunite in volume a cura di G.S. Gargano nella raccolta intitolata Tebaide, pubblicata a Bologna da Zanichelli; nel 1912, sempre presso Zanichelli, fu approntata una seconda edizione con una più ampia e puntuale introduzione storico-critica dello stesso Gargano.

                                                                                                                      Liberamente tratto da Treccani.it

 

Il vento

Qualcuno spinge la mia porta, l'agita violento;
qualcuno piange con dei lunghi gemiti stasera,
uno che corse sibilando per la notte nera...
E' il vento che si leva, è il vento.

Egli ha la voce delle turbe pazze di spavento,
egli ha lo scroscio degli oceani, l'ansar delle selve,
e par che aspetti con un lungo bramito di belve...
E' il vento che si lagna, è il vento,

Ora, dopo un mormorìo stanco di sistri d'argento
sosta, come chi troppo, troppo lungamente pianse,
come nell'ansia d'una prece che un singhiozzo franse...
E' il vento che riposa, è il vento.

Invano sotto al fioco lume che fiammeggia lento
io schiusi il libro che i momenti deserti consola,
invano io tesi anima e sensi a un'altra parola...
E' il vento che mi chiama, è il vento.

Nell'ombra, che come un oceano mi circonda, sento
che passa e passa senza fine un'ignota pesta,
un soffio sveglia ora la mia lunga tosse funesta...
E' il vento che cammina, è il vento.

Ecco, e alla fine con più fieri gemiti irruento
egli spalanca la mia porta ch'io gli opposi dura;
s'odon misteriosi schianti per la casa oscura...
E' il vento che mi cerca, è il vento.

Ei volta al libro le profonde pagine violento,
le straccia come in una vana ansia della fine,
e abbassa e spegne la tremante lampada alla fine...
E' il vento che c'incalza, è il vento.
 
 
L’alba misteriosa
 
S’apre una pagina d’ambra
nel cielo, all’orlo del monte;
fioca sul nero orizzonte
l’ultima stella sparì.
E già per l’erto pineto
brucando il gregge si sperde,
piccoli punti fra il verde,
fiocchi di bianco qua e là…
Fremiti di fogli e d’acque
par che si sveglino a pena,
via via la luce s’insena
lenta nel bosco là giù.
L’ombra riprese i fantasmi
e riaccostò le sue porte;
di là, il silenzio, la morte,
il giorno dolce di qua;
il giorno, ch’e’ fra due notti,
come la vita nel nulla
che nel mistero ci culla;
un sogno anch’esso e non più.
 
 

 

 
 



venerdì 14 giugno 2013

Appuntamento con Ermanno Crescenzi


"Continuò ad osservarla aspettando che volgesse la testa per poterne scorgere il profilo.
 Non era un abbaglio: era Silvia."
 
Ermanno Crescenzi
 
Il treno per Erfurt
 
Presentazione
A cura de
La Fucina delle Parole
e
Gli Occhi di Argo
 
Letture a cura di
Ermanno Crescenzi
e
Paola Barletta
 
Sabato 15 giugno ore 21,00
Biblioteca C. L. T. Via Muratori Terni
Proiezioni, intervista all‟autore, letture di brani scelti


 

mercoledì 12 giugno 2013

Anna Andreevna Achmatova







 

LA MUSA
Quando
la notte attendo il suo arrivo,
la vita sembra sia appesa a un filo.
Che cosa sono onori, libertà, giovinezza
di fronte all’ospite dolce
col flauto nella mano? Ed ecco è entrata.
Levato il velo, mi guarda attentamente.
Le chiedo: “Dettasti a Dante tu
le pagine dell’Inferno?” Risponde: “Io”.

 

 
AH, TU PENSAVI
Ah, tu pensavi che anch’io fossi una
che si possa dimenticare
e che si butti, pregando e piangendo,
sotto gli zoccoli di un baio.
O prenda a chiedere alle maghe
radichette nell’acqua incantata,
e ti invii il regalo terribile
di un fazzoletto odoroso e fatale.
Sii maledetto. Non sfiorerò con gemiti
o sguardi l’anima dannata,
ma ti giuro sul paradiso,
sull’icona miracolosa
e sull’ebbrezza delle nostre notti ardenti:
mai più tornerò da te.
 


 
 

 




 


 


 
 

 






domenica 9 giugno 2013

Il profumo dei ... fiori della mente






Fondare biblioteche è un po' come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l'inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire.               
 
Marguerite Yourcenar

giovedì 6 giugno 2013

Aleksander Sergevic Puskin




"Alcuni paesi hanno avuto i loro Dante, i loro Goethe e i loro Shakespeare: cioè un nome che, unico e assoluto, è stato considerato come una sorta di emblema d'una lingua, nonché d'un popolo. In Russia questo nome è Puškin... Egli ha detto cose che prima di lui nessuno aveva detto e nessuno dopo di lui ha mai dimenticato".
Puškin infatti è stato uno spartiacque fondamentale tra le letterature a lui precedenti e a lui successive: i suoi più importanti discepoli, per loro stessa ammissione, sono stati Tolstoi, Dostoievsky, Gogol, Turgenev...

 

Nato a Mosca  da una piccola ma antichissima famiglia nobiliare. Puskin crebbe in solitudine, senza affetti, immerso fra i libri della ricca biblioteca del padre, fra i classici di Moliere, di Rousseau, di Montesquieu e le antiche fiabe popolari. Dopo aver completato gli studi si lanciò nella vita mondana dei salotti lussuosi nobiliari e delle società letterarie politiche progressiste, nei quali cominciarono ad aleggiare i primi pensieri rivoluzionari, al riparo dall’occhio dello Zar. Così Puskin si lasciò guidare dai fervori della gioventù, scrivendo poesie ispirate alla libertà, alla lotta per la patria, contro il potere tirannico. Ben presto, però, la polizia segreta russa, per ordine dello stesso zar Alessandro I, lo obbligò a lasciare la città per raggiungere le sponde del fiume Dnepr e vivere, isolato, nella sperduta città di Dnipropetrovs’k. Lontano dalla patria, si sentì prigioniero di un terra deserta, come “una giovane aquila” incapace di volare oltre le sbarre di una cella. Una volta ritornato a Pietroburgo conobbe Natal’ja Nikolaevna Gončarova, un’incantevole donna frivola, sciocca, ma estremamente bella, della quale si innamorò perdutamente. Si dice che bastò un sorriso per farlo innamorare e proprio per quel sorriso perderà la vita. Puskin, poeta della Russia e dell’amore, trovò la morte per mano del nobile francese Georges in un duello. Come in qualunque romanzo romantico che si rispetti, il poeta morì per difendere il proprio onore, sfidando colui che insinuò l’infedeltà della moglie. In quella giornata d’inverno nel 1837 Puskin perse la vita, ma ancora oggi egli risuona fra le terre della Russia, immutabile ed eterno, proprio come le sue opere.

  Parzialmente tratto da: L'intellettuale dissidente

Il fiore
Un fiore secco, un fiore senza profumo
Dimenticato in un libro io vedo;
Ed ecco che già di uno strano sogno
Si è colmata l'anima mia: 
 
Dove è fiorito? Quando? In quale primavera?
E a lungo è fiorito? E chi l'ha colto,
Una mano nota o forse estranea?
E chi l'ha posto in questo libro?

Forse in ricordo di un tenero incontro,
O di un fatale abbandono,
Oppure di una passeggiata solitaria
Nel silenzio dei campi, nell'ombra dei boschi?

E lui è vivo, ed è viva lei?
E ora dov'è il loro angolino?
O forse sono già appassiti,
Come questo fiore sconosciuto?
 
 Se la vita ti tradisce

Se la vita ti tradisce
non dolerti, non crucciarti!
nella pena trova pace
l'allegria, credi, verrà.

Di futuro vive il cuore,
il presente è desolato:
tutto è effimero, fugace;
ciò che passa sarà amato.