domenica 30 giugno 2013

Marceline Desbordes-Valmore




 
 
 
"(…) con voce alta e chiara proclamiamo che Marceline Desbordes-Valmore è semplicemente – con George Sand, così diversa, dura, non priva di affascinanti indulgenze, di alto buon senso, di fiero e per così dire maschio portamento – la sola donna di genio e talento di questo e di tutti i secoli, in compagnia forse di Saffo, e di Santa Teresa."
 
Scrisse così Paul Verlaine in modo lapidario ma efficace, concludendo il suo articolo, il primo della seconda serie, dei suoi Poètes Maudits, su Marceline Desbordes-Valmore (1786-1859). Il percorso critico di Verlaine, pertanto, cercava di ampliare il discorso già iniziato da Baudelaire e da Rimbaud, su una poeta-donna, definita “église aux cent chapelles”, ma imponeva l’attenzione al grande magma di qualità che possedeva: madre, ragazza e “inquieta ma sincera cristiana. La lettura della sua opera destò in Verlaine un sommovimento, una grazia cara, poiché “cade dalle mani la penna mentre lagrime deliziose bagnano «le nostre zampe di gallina». Ci sentiamo impotenti a sezionare oltre un simile angelo”. Ma tempo prima, anche Victor Hugo nel 1821 appuntò: “Mi sembra che la signora Desbordes-Valmore non abbia ancora ottenuto se non la metà del trionfo che spetta a un talento quale il suo; i suoi versi appassionati vanno al cuore; imprima loro un carattere religioso, e toccheranno l’anima”, e Lamartine successivamente dirà: “(…) L’uccello che imita la voce, ti ha prestato il suo lamento e i suoi canti…”.
Chi è  Marceline Desbordes-Valmore? Qual è la genesi del suo verso?
Sainte-Beuve può segnare i passi di una comprensione: “Se qualcuno è stato ben dotato fin dall’inizio, è proprio lei: essa ha cantato come canta l’uccello (…) senza altra scienza se non l’emozione del sentimento, senza altro mezzo che la nota naturale (…). Da ciò, nei suoi primi canti soprattutto (…), qualcosa di particolare e di inatteso, di una semplicità un poco strana, di un’elegante ingenuità, di una passione ardente e candida …”
La forza dell’opera di questa donna risiede in una purezza vibratile e rigorosa, un canto che tocca la superficie delle cose e della realtà, per intessere una vaghezza di voce e una sperdutezza roca, come scrisse Baudelaire: “Se il grido, se il sospiro di un’anima eletta, se la disperata ambizione del cuore, se le facoltà improvvise, spontanee, se tutto  ciò che è gratuito e viene da Dio è sufficiente per fare un grande poeta, Marceline Desbordes-Valmore è e sarà sempre un grande poeta (…) un’improvvisa bellezza, inaspettata, ineguagliabile vi apparirebbe, ed eccovi irresistibilmente elevato nel cielo della poesia. Nessun poeta fu mai naturale, nessuno fu mai meno artificiale”. L’intervento di Baudelaire mette l’accento sul movimento poetico, non solo della Desbordes-Valmore, ma di ogni gesto artistico: la gratuità e la febbre di un’obbedienza.
Poetessa, cantante e attrice, nata a Douai, una piccola città della Fiandra francese, di famiglia piccolo-borghese, sperimentò nella sua esistenza l’esodo familiare, il disagio e la miseria di un vagabondaggio, che la spingerà, poco prima della morte della madre, persino a Guadalupe. La conoscenza di Henry Latouche, scrittore e commediante, è la sua follia e il suo tormento. Il varco verso la voragine di un colpo fermo, così come  il suo “Olivier” della profondità del cuore. Nonostante il matrimonio con Prosper Valmore nel 1817 e i quattro figli, di cui tre morti prematuramente, è nella stanza di Henry che dimora il fiore della poesia, la sua vorace bellezza e la sua sospensione di sogno:
«Librati, anima mia, su questa folla ignara. / Libero uccello immergiti nel cielo spalancato».
Il cielo di Marceline è madreperlaceo, come il candore violento di un’anima lieve:
«Quel gran soffio d’amore dentro il bacio che anelo/ dalle tue labbra chiuse, io non lo so rapire. / Se tu me ne fai dono, avrò giù terra in cielo/ Ma il tuo sonno si ostina. E tu mi fai morire».
La purezza si accompagna sempre a una passione per l’umano, alla vivezza di un amore che si imprime, come cantico, alla traversata di una domanda e di una voce di tempo:
«Cercarsi, cogliere uno sguardo furtivo, non è già tutto? / E più non domandarmi, con mesto sorriso, / il fiore che danzando trattengo mio malgrado: / lo sento sul mio cuore quando il cuore lo desidera, / e mi si legge negli occhi che lo colsi per te».
Il fuoco della controversia è il parto di un’anima sofferente, lontana nel tempo e nello spazio: «Sarà, lagrima dopo lagrima, e tormento su tormento, /il puro parto delle anime sofferenti».
La corporeità del cuore raggiunge l’incorporeo acceso della condizione umana, come scrisse Honorè de Balzac: “Marceline ha pertanto conservato il ricordo di un cuore che sente pienamente riecheggiare, lei e le sue parole, lei e le sue poesie, giacchè siamo dello stesso paese, Signora, del paese delle lacrime e della miseria”.
Ma il suo lamento non è lo schianto di un’anima. Ma il limite dell’anima. Come ha giustamente osservato Giuseppe Pintorno, fine traduttore dell’opera di Marceline, la sua voce: “via via ride gioiosa, o velata di nostalgia e rimpianto, o resa quasi afona dal dolore; specchio dell’anima, dell’emozione d’amore: amore di donna, di figlia, di sorella, di madre. Ma sempre voce d’amore”.
Ecco l’origine del suo testo cantato come germoglio. Il velo della gioia e l’afonia del dolore colorano il suo cielo, in una campitura trafitta e fragile che sostiene la volta del suo amore indicibile, che arde e desidera compimento, e, nel contempo, dipinge paradisi.
È l’elegia che incarna il tempo, l’autentica cantica esiliata che grida nei bagliori. L’abbandono totale, l’anelito senza scampo alla felicità suprema contemplano la naturalezza di una forza, infilata negli squarci d’eterno.  Un sogno che smarrendosi e ferendosi, si ritrova.
Il fragile roseto che invade il suo interno appare la stanza di un’onda fuggitiva che impagina i colori dell’anima, come il grembo di un fiore prezioso, solcato dai fumi dello stesso male che la portò via.
La fragilità di una donna che ama non è debolezza sentimentale di una sorda lagnanza, ma la potenza di un cuore che piove sul tempo, che non censura la storia, per diventare poesia autentica e gesto sospeso. Il suo grido e il suo ricordo, la «mobile frescura» di una sinestesia annidata nei tremori dell’abisso.
       Liberamente tratto da  un articolo di Andrea Galgano Docente e critico letterario
                                                                                                                                                  
CONFESSIONE DI UNA DONNA
Signora, sapete perchè
non vi ho voluto vedere?
Amo. E una donna, per sé,
teme dell’altre il potere.
Il vostro? È in codesta malía,
che occorre, per forza adorare.
E lagrime di gelosia,
io, non volevo versare.
Dovunque lo attenda, il mio amore
dovrà, ma da solo, venire.
Ho dato, a lui solo, il mio cuore.
Nel suo bene, è il mio solo avvenire.
Si accieca per ogni altra fiamma,
chi veda i vostri occhi bruciare.
E trema, perché se ne infiamma.
Ma io, non volevo tremare.
In quella gran folla asservita,
di cui respirate gli incensi,
sentito svanir la mia vita
avrei, di tra brividi intensi.
Colui, per cui trèpido tanto,
per cui sono pronta a morire,
chiederebbe il perché del mio pianto.
Ed io, non volevo mentire.
Se il cuore, fra tante conquiste,
avete a qualcuno donato,
d’un tratto, sentendosi triste,
non ha dunque mai trepidato?
La donna più bella o crudele,
può amare, ma senza soffrire?
Si muore, per un infedele,
ed io non volevo morire.
 
 
 
  La memoria
Taci, sorella, ché il passato brucia.
Taci il suo nome, ché il suo nome è lui.
Ostinarsi sui beni perduti
è come andar con l’onda che ripiega.
Quel nome che mi è ardore e mi è dolcezza
quel nome, quando appena ora mi tocca,
come un fuoco mi avvampa nella bocca.
Sorella, non parlare.
Vedi, da donna, un cuore di donna
in fondo ai nostri occhi costernati:
a spegnersi alla fine condannati,
troppa febbre la fiamma se ne porta.
Di questo male la tortura forte
inflessibile l’uomo a lungo regge,
e se ci vieta, con spietata legge,
la sofferenza, ci concede morte.
Come conosce, lui, l’amara scienza
di offrir menzogne anche al suo stesso amore;
quanta furia lo nutre, e che rancore
contro il suo antico idolo s’inventa.
Come c’investe, a volte, l’aspro fiato
del suo odio… se nel suo delirio,
perché non me ne offrisse Dio vendetta,
ad alta voce non l’ho mai gridato.
Ché per lui verso, inesaurita fonte,
un pianto che somiglia a una preghiera;
in essa amore a carità si fonde
che dell’amore è la radice vera.
Che fede ti vibrava nell’accento,
giovane voce subito spergiura!
Ne parlo a Dio e taccio il tradimento
perché ti ami quanto t’amo io.
La fresca impronta m’è rimasta in cuore
di ciò che il suo candore un tempo è stato.
E quando Dio peserà il mio cuore
quel vuoto eterno, insieme, avrà pesato.
Non è più lui, nemmeno ai propri occhi,
e chi ha avuto il suo omaggio s’è ingannato.
Lo compiango: ma solo un giorno, in cielo,
gli ridarò il bel viso ritrovato.
Elegia

Ero tua ancor prima di averti veduto.
La mia vita, al suo nascere, fu promessa alla tua;
me lo rivelò il tuo nome con un turbamento improvviso,
l'anima tua vi si celava per risvegliare la mia.
L'intesi un giorno e ne persi la voce;
a lungo l'ascoltai senza rispondere.
Il mio essere con il tuo, eran tutt'uno;
per la prima volta mi sentii chiamata.
Sapevi tu quel prodigio ? Ebbene, senza conoscerti,
mi rivelò l'amante, il mio signore,
e ti riconobbi sin dai primi tuoi accenti,
quando venisti a rischiarare i miei languenti.
La tua voce mi fece impallidire, chinai lo sguardo;
e in quello sguardo muto si unirono le nostre anime;
in fondo a quello sguardo si rivelò il tuo nome,
che senza chiedere riconobbi !
Da allora, attonita, ne subii l'incanto,
e a esso sottomessa, per sempre incatenata.
Esprimevo per lui i più dolci sentimenti;
l'univo al mio per suggellare i giuramenti.
Ovunque lo leggessi, quel nome incantatore,
e lacrime versavo:
di magica lode sempre soffuso,
ai miei occhi abbagliante si offriva.
Lo scrivevo...presto più non osai,
e il mio timido amore lo cangiava in sorriso,
mi cercava la notte, cullando il mio sonno;
e ancora intorno mi risuonava al risveglio;
era nel mio respiro e quando sospiro
è lui che m'accarezza e che il mio cuore respira.
Nome amato ! Tenero nome ! Oracolo del mio destino !
Ahimè! Come mi piaci, come mi tocca la tua grazia !
Mi annunciasti la vita e, unito nella morte,
come un ultimo bacio chiuderai la mia bocca.
 



 






 

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