È
uno sforzo, una sofferenza, lo scrivere?
No, è
un lavoro, ma è anche quasi un gioco, e una gioia, perché
l’essenziale non è la
scrittura,
è la visione. Ho sempre scritto i miei libri col pensiero, prima di
trascriverli sulla carta
, e a
volte li ho perfino dimenticati per dieci anni prima di dar loro una
forma scritta. La scena tra Zénon e il canonico, ad esempio, io l’ho
vista (potrei quasi dire che l’ho scritta nella mia testa)
ascoltando musica, Bach mi pare, in casa di un amico, un pomeriggio
del 1954 o giù di lì. Sono uscita da quella casa dicendo a me
stessa: “Non ho né tempo né modo di scrivere questa cosa adesso,
e magari non l’avrò per mesi, o addirittura per anni. Me ne
ricorderò o non me ne ricorderò...vedremo”
E poi, a distanza di anni, tutto mi è apparso davanti. Nel 1957 –
ricordo esattamente
la data per via di un viaggio che me la richiama alla memoria – ero
andata a fare delle
conferenze in Canada; non stavo molto bene, e avevo dovuto prendere
un treno in una stazioncina
sperduta, da qualche parte negli Stati Uniti. Il treno partiva
intorno alle tre del mattino,
e mi sono fatta dare una camera in una specie di locanda. Ricordo che
faceva freddo,e che
mi sono distesa sul letto senza disfarlo. Durante quelle tre ore, ho
scritto, col pensiero, tutta
la lunga novella di La mort conduit l’attelage. Questo avveniva nel
1957. E ho ripreso in mano il
progetto solo l’anno scorso. Me ne sono ricordata come di una
storia che mi sarebbe stata
raccontata, come se il flusso ricominciasse a scorrere dopo essere
stato congelato per più di
vent’anni.
Questo
rientra nelle sue abitudini?
Mi
succede abbastanza spesso, incrocio stanze un po’ fuori dal comune.
Forse, dipende da
una
sorta di abbandono delle abitudini, di rottura della routine. Detto
questo, bisogna dire che
anche
le abitudini servono alla creazione letteraria, perché nelle
abitudini c’è un che di
rituale.
Alzarsi la mattina, scendere ad accendere il fuoco in cucina, dar da
mangiare agli uccelli,
guardare
il sole dalla terrazza, sono altrettanti riti che finiscono col
diventare assolutamente
impersonali.
Ci
sono anche scrittori che si mettono ogni mattina alla scrivania,
all’ora stabilita, e
aspettano
che venga l’ispirazione. È il suo caso?
Quando
mi metto alla scrivania so già esattamente quello che devo fare,
perché ce l’ho tutto
scritto
nel pensiero. Naturalmente la scrittura dà luogo a una sorta di
chiaroscuro; mette
in
risalto errori o dà adito a nuove scoperte ma i fatti, le idee sono
già là. Per un saggio critico, il modo di procedere è molto
diverso. Si può lavorare continuando per mesi e mesi a ricominciare
da capo. Il mestiere dello scrittore è un’arte, o meglio un
artigianato, e il metodo dipende un po’
dalle
circostanze. A volte prendo un blocco e butto giù il mio testo con
una scrittura che sfortunatamente diventa illeggibile in capo a
quattro o cinque giorni, che in qualche modo
appassisce
come i fiori. Ma succede anche che vada dritta alla macchina da
scrivere e batta
una
prima versione. In ambedue i casi, per ogni frase, vado di slancio;
successivamente,
cancello,
scelgo la frase che preferisco. Lavoro anche con forbici e colla, ma
non sempre. E se
le
piacciono le piccole manie tipiche dello scrittore, gliene posso
citare una:
alla
terza o quarta revisione, armata di matita, rileggo il mio testo, già
quasi a posto, e
tolgo
tutto quello che può essere tolto, tutto ciò che mi pare inutile. E
qui, esulto.
Scrivo
a piè di pagina: abolite sette parole, abolite dieci parole...Sono
felicissima: ho soppresso
l’inutile.
A
che punto la versione le sembra definitiva?
Quanto
sento di aver detto tutto quello che potevo dire, e di averlo detto
nel miglior
modo
possibile. A questo punto, ho la consapevolezza che la faccenda è
chiusa, finita.
È come
per il pane: c’è un momento in cui si sente che non bisogna più
impastare. Si prova
allora
un sentimento di stupore – che provo del resto per tutto, non solo
per i libri – la
soddisfazione
e la sorpresa di essere riuscita a fare quella cosa, di avercela
fatta, di esserne
venuta
a capo. Suppongo che sia la stessa sensazione dello sportivo quando
tocca la meta.
Non era
sicuro di arrivarci.
Ma
il metodo di lavoro non dipende dai libri stessi, dai loro soggetti,
o dalla forma
scelta?
Certamente.
Il metodo varia ogni volta nella misura in cui ogni volta si tratta
di un enigma
diverso
da risolvere. Lo dicono anche i pittori: ogni ritratto pone un nuovo
problema. Perfino Rembrandt doveva esitare di fronte ad un nuovo
modello da dipingere. E, sulla tela, il modello appariva essere e
individuo al tempo stesso, borghese del XVII secolo, unico fin nelle
verruche, e contemporaneamente figura totale, emblema di umanità. Il
che non impediva a Rembrandt di essere ogni volta Rembrandt, perché
aveva il suo stile peculiare
(Conversazioni
tra Matthieu Galey e MargueriteYourcenar
da: “Ad occhi aperti”-Bompiani)