lunedì 28 aprile 2014

La sensualità delle forme: BOTERO


La compiaciuta opulenza delle bellezze di Botero e il suo successo a livello commerciale, spiccano come un colossale paradosso in una società che sembra stabilmente orientata verso un modello di bellezza femminile efebico e diafano. Alcuni critici hanno posto in relazione la dilatazione delle forme operata da Botero con il contesto socio economico coevo, leggendola come proiezione visiva del consumismo. Tuttavia la realtà è molto più semplice e meno “militante”, senza contare che – generalmente – l’affermazione di un modello di bellezza si consolida come opposizione e non come riflesso della tendenza economica del momento (le ipertrofiche Veneri di Rubens sarebbero impensabili al di fuori della crisi del Seicento). La dilatazione delle forme, nelle opere del pittore colombiano, ha quindi un significato molto diverso… e in un certo senso molto più localistico: ne è una spia il fatto che essa non riguardi solo il corpo umano, ma anche gli animali e lo stesso contesto paesaggistico.
“Il problema è determinare la fonte del piacere quando si guarda un dipinto. Per me il piacere viene dall’esaltazione della vita, che esprime la sensualità delle forme. Per questa ragione il problema formale è creare sensualità attraverso le forme.” Questa è la chiave di tutto. Dietro l’irreale dilatazione dei volumi non c’è nessun tipo di riflesso o critica di un modello sociale, ma la pura e semplice ricerca di un piacere ideale - non meramente edonistico - che in Botero si concretizza idillicamente in un metaforico “ritorno alle origini”, esaltazione della sensualità densa e lussureggiante tipica della realtà latinoamericana. Si tratta di un modello astratto, utopico, che affonda le radici nella realtà, ma che dalla realtà si distanzia: la brillantezza un po’ naïve della tavolozza cromatica e la totale assenza di dimensione psicologica nella rappresentazione dei personaggi, concorrono ad allontanare soggetti e paesaggi dall’osservatore, collocandoli in un “non luogo” serenamente favolistico.
                                                                                          Liberamente tratto da Morfoedro






















domenica 27 aprile 2014

Terzo incontro di letture alla Banca del Tempo



“Roma de travertino,
  rifatta de cartone,
  saluta l’imbianchino,
  suo prossimo padrone.”
(Riferito alla visita di Hitler in Italia nel 1938)


mercoledì 23 aprile 2014

William Shakespeare


Tu sei per la mia mente, come cibo per la vita.
Come piogge di primavera, sono per la terra.
E per goderti in pace, combatto la stessa guerra
che conduce un avaro, per accumular ricchezza.
Prima, orgoglioso di possedere e, subito dopo,
roso dal dubbio, che il tempo gli scippi il tesoro.
Prima, voglioso di restare solo con te
poi, orgoglioso che il mondo veda il mio piacere.
Talvolta, sazio di banchettare del tuo sguardo,
subito dopo, affamato di una tua occhiata.
Non possiedo, né perseguo alcun piacere,
se non ciò che ho da te, o da te io posso avere.
Così ogni giorno, soffro di fame e sazietà,
di tutto ghiotto e d’ogni cosa privo.

William Shakespeare





martedì 22 aprile 2014

Giornata della Terra 2014



La terra vi concede generosamente i suoi frutti, e non saranno scarsi se solo saprete riempirvi le mani.
E scambiandovi i doni della terra scoprirete l’abbondanza e sarete saziati. Ma se lo scambio non avverrà in amore e in generosa giustizia, renderà gli uni avidi e gli altri affamati.
Quando voi, lavoratori del mare dei campi e delle vigne, incontrate sulle piazze del mercato
i tessitori e i vasai e gli speziali, invocate lo spirito supremo della terra affinché scenda in mezzo a voi a santificare le bilance e il calcolo, affinché il valore corrisponda a valore.
E non tollerate che tratti con voi chi ha la mano sterile, perché vi renderà chiacchiere in cambio della vostra fatica. A tali uomini direte: «Seguiteci nei campi o andate con i nostri fratelli a gettare le reti nel mare. La terra e il mare saranno con voi generosi quanto con noi».
E se là verranno i cantori, i danzatori e i suonatori di flauto, comprate pure i loro doni.
Anch’essi sono raccoglitori di incenso e di frutti, e ciò che vi offrono, benché sia fatto della sostanza dei sogni, distillano ornamento e cibo all’anima vostra.
E prima di lasciare la piazza del mercato, badate che nessuno vada via a mani vuote.
Poiché lo spirito supremo della terra non dormirà in pace nel vento sino a quando il bisogno dell’ultimo di voi non sarà appagato.
Estratta dal “PROFETA”, di Kahlil Gibran




giovedì 17 aprile 2014

Rainer Maria Rilke “Lettere a un giovane poeta”



Parigi,17 febbraio 1903
Egregio signore,
la sua lettera mi è giunta solo alcuni giorni fa. Voglio ringraziarla per la sua grande e cara fiducia. Poco altro posso. Non posso addentrarmi nella natura dei suoi versi, poiché ogni intenzione critica è troppo lungi da me. Nulla può toccare tanto poco un’opera d’arte quanto un commento critico: se ne ottengono sempre più o meno felici malintesi. Le cose non si possono tutte afferrare e dire come d’abitudine ci vorrebbero far credere; la maggior parte degli eventi sono indicibili, si compiono in uno spazio inaccesso alla parola, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, esistenze piene di mistero la cui vita, accanto all’effimera nostra, perdura.
Ciò premesso, mi sia solo consentito dirle che i suoi versi, pur non avendo una natura loro propria, hanno però sommessi e velati germi di una personalità. Con più chiarezza lo avverto nell’ultima poesia, La mia anima. Qui, qualcosa di proprio vuole farsi metodo e parola. E nella bella poesia A Leopardi affiora forse una certa affinità con quel grande solitario. Eppure quei poemi sono ancora privi di una loro autonoma fisionomia, anche l’ultimo e quello a Leopardi. La sua gentile lettera che li accompagnava; non manca di spiegarmi varie pecche che ho percepito nel leggere i suoi versi, senza però potervi dare un nome.
 Lei domanda se i suoi versi siano buoni. Lo domanda a me. Prima lo ha domandato ad altri. Li invia alle riviste. Li confronta con altre poesie, e si allarma se certe redazioni rifiutano le sue prove. Ora, poiché mi ha autorizzato a consigliarla, le chiedo di rinunciare a tutto questo. Lei guarda all’esterno, ed è appunto questo che ora non dovrebbe fare. Nessuno può darle consiglio o aiuto, nessuno. Non v’è che un mezzo. Guardi dentro di sé. Si interroghi sul motivo che le intima di scrivere; verifichi se esso protenda le radici nel punto più profondo del suo cuore; confessi a se stesso: morirebbe, se le fosse negato di scrivere? Questo soprattutto: si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità. La sua vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di questa urgenza. Allora si avvicini alla natura. Allora cerchi, come un primo uomo, di dire ciò che vede e vive e ama e perde. Non scriva poesie d’amore; eviti dapprima quelle forme che sono troppo correnti e comuni: sono le più difficili, poiché serve una forza grande e già matura per dare un proprio contributo dove sono in abbondanza tradizioni buone e in parte ottime. Perciò rifugga dai motivi più diffusi verso quelli che le offre il suo stesso quotidiano; descriva le sue tristezze e aspirazioni, i pensieri effimeri e la fede in una bellezza qualunque; descriva tutto questo con intima, sommessa, umile sincerità, e usi, per esprimersi, le cose che le stanno intorno, le immagini dei suoi sogni e gli oggetti del suo ricordo. Se la sua giornata le sembra povera, non la accusi; accusi se stesso, si dica che non è abbastanza poeta da evocarne le ricchezze; poiché per chi crea non esiste povertà, né vi sono luoghi indifferenti o miseri. E se anche si trovasse in una prigione; le cui pareti non lasciassero trapelare ai suoi sensi i rumori del mondo, non le, rimarrebbe forse la sua infanzia, quella ricchezza squisita, regale, quello scrigno di ricordi? Rivolga lì la sua attenzione. Cerchi di far emergere le sensazioni sommerse di quell’ampio passato; la sua personalità si rinsalderà, la sua solitudine si farà più ampia e diverrà una casa al crepuscolo, chiusa al lontano rumore degli altri. E se da questa introversione, da questo immergersi nel proprio mondo sorgono versi, allora non le verrà in mente di chiedere a qualcuno se siano buoni versi. Né tenterà di interessare le riviste a quei lavori: poiché in essi lei vedrà il suo caro e naturale possesso, una scheggia e un suono della sua vita. Un’opera d’arte è buona se nasce da necessità. È questa natura della sua origine a giudicarla: altro non v’è. E dunque, egregio signore, non avevo da darle altro consiglio che questo: guardi dentro di sé, esplori le profondità da cui scaturisce la sua vita; a quella fonte troverà risposta alla domanda se lei debba creare. La accetti come suona, senza stare a interpretarla. Si vedrà forse che è chiamato a essere artista. Allora prenda su di sé la sorte, e la sopporti, ne porti il peso e la grandezza, senza mai ambire al premio che può venire dall’esterno. Poiché chi crea deve essere un mondo per sé e in sé trovare tutto, e nella natura sua compagna.
Forse, però, anche dopo questa discesa nel suo intimo e nella sua solitudine, dovrà rinunciare a diventare un poeta (basta, come dicevo, sentire che senza scrivere si potrebbe vivere, perché non sia concesso). Ma anche allora, l’introversione che le chiedo non sarà stata vana. La sua vita in ogni caso troverà, da quel momento, proprie vie; e che possano essere buone, ricche e ampie, questo io le auguro più di quanto sappia dire.
Cos’altro dirle? Mi pare tutto equamente rilevato; e poi, in fondo, volevo solo consigliarla di seguire silenzioso e serio il suo sviluppo; non lo può turbare più violentemente che guardando all’esterno, e dall’esterno aspettando risposta a domande cui solo il sentimento suo più intimo, nella sua ora più quieta, può forse rispondere.
Mi ha rallegrato trovare nel suo scritto il nome del professor Horacek; serbo per quell’amabile studioso grande stima, e una gratitudine che non teme gli anni. Voglia, la prego, dirgli di questo mio sentimento; è molto buono a ricordarsi ancora di me, e lo so apprezzare.
Le restituisco inoltre i versi che gentilmente mi ha voluto confidare. E la ringrazio ancora per la grandezza e la cordialità della sua fiducia, di cui con questa risposta sincera, e data in buona fede, ho cercato di rendermi un po’ più degno di quanto io, un estraneo, non sia.
Suo devotissimo
Rainer Maria Rilke

lunedì 14 aprile 2014

... Alcune foto del " pescatore di immagini"












Doisneau:" il fotografo poeta"

Grande maestro della fotografia, Doisneau è il rappresentante più famoso della cosiddetta "fotografia umanista", ossia quel tipo di sensibilità visiva che pone l'accento sulla condizione disagiata dell'uomo nella società. Nasce il 14 aprile del 1912 a Gentilly, un sobborgo di Parigi che segnerà profondamente la sua estetica e il suo modo di guardare le cose. Diplomatosi incisore litografo alla scuola di Estienne decide di abbandonare quella strada per gettarsi nella realtà viva e cruda delle periferie, dimensione che all'epoca nessuno considerava. Sceglie poi di utilizzare un mezzo d'espressione al tempo ancora guardato con un certo sospetto: la fotografia. Di fronte ad un quadro simile, in cui nella cultura ufficiale dominava l'ostilità e l'incomprensione per questo genere di produzione artistica, Doisneau tira diritto, spinto dalla sua voglia di guardare le cose da un punto di vista non convenzionale e profondamente convinto del valore documentale e artistico dello scatto. Negli anni trenta sceglie dunque definitivamente che quella sarà la sua strada. Lo sforzo maggiore è quello di donare dignità e valore alla fotografia, cercando di svincolarla da una considerazione meramente "professionale", occupandosi in primo luogo di soggetti che non interessavano a nessuno e che non avevano nessun valore commerciale. I suoi committenti di allora, infatti, si chiamavano Renault, Vogue, ecc. ma sono ben presto abbandonati in favore dell'Agenzia Rapho. La collaborazione con l'agenzia comincia nel 1946 e durerà tutta la vita, per quasi cinquant'anni, fino alla fine della sua vita. Soggetto privilegiato del fotografo: Parigi. Produce una serie di scatti innovativi, geniali e dominati da una forte carica umana: sono le immagini che lo hanno reso celebre. Quello che colpisce i fruitori e gli operatori del settore è che non si tratta di una Parigi convenzionale, quella che domina negli ambienti della pubblicità, della moda, dei giornali o del cinema ma è una Parigi di piccola gente, di arie di fisarmonica, di grandi e bambini, i cui sguardi trasudano umanità e tenerezza. Tra le produzioni di questo periodo si possono citare le celebri "Banlieues" tra le quali spicca la storica "Banlieue la nuit" del 1947, a quelle dedicate ai bambini: "Le dent" (1956), "Les Frères" (1934), "Les petits enfants au lait" (1932). Immancabili i celebri "baci" da "Le baiser de l'hôtel de ville" a "Baiser blottot" e al "Baiser valsé" anch'essi datati 1950. Inoltre, il suo modo di lavorare poco convenzionale e fuori dagli schemi della "professionalità" generalmente accettata, si dimostra anche nel suo stile. 
La sua carica interiore possiamo capirla ascoltando direttamente le sue parole: "un fotografo animato dal solo bisogno di registrare quello che lo circonda non aspira a ottenere risultati economici e non si pone i limiti di tempo che ogni produzione professionale comporta". Per lui la fotografia è prima di tutto un bisogno privato, un "desiderio di registrare", il soddisfacimento di una necessità che toglie al suo lavoro ogni elemento di calcolo e ogni ricerca di perfezionismo sterile.
Le foto circolano prima tra le persone a lui vicine e vengono utilizzate dagli amici qualora ne abbiano bisogno. Parlando ancora del suo lavoro e dell'impulso che lo spinge a creare, in un'intervista si legge: "Vi spiego come mi prende la voglia di fare una fotografia. Spesso è la continuazione di un sogno.
Mi sveglio un mattino con una straordinaria voglia di vedere, di vivere. Allora devo andare. Ma non troppo lontano, perché se si lascia passare del tempo l'entusiasmo, il bisogno, la voglia di fare svaniscono. Non credo che si possa "vedere" intensamente più di due ore al giorno". Il tempo, il suo dilatarsi e compenetrarsi con il suo essere fotografo è forse insieme all'istinto, una delle note dominanti del suo lavoro. L'artista preferiva essere definito poeticamente come un "pescatore di immagini" e sentiva la necessità di immergersi completamente nella realtà. 
Come in un suo tragico scatto, stavolta malriuscito, il grande fotografo scompare ultraottantenne nel 1994, avendo coronato il suo sogno, insieme ad altri eminenti colleghi, di dare un valore e una dignità alla fotografia che prima non aveva.
                                                                                               Liberamente tratto da Biografieonline

martedì 8 aprile 2014

Secondo incontro di letture alla Banca del Tempo


Domani alle ore 17,00 il secondo incontro di letture alla Banca del Tempo.
Sul tema oggetto dell'incontro, proponiamo questo brano.

"Una volta ho detto che scrivere è una maledizione. Non ricordo di preciso perché l'ho detto, e sinceramente. Oggi lo ripeto: è una maledizione, ma una maledizione che salva. Non mi riferisco tanto allo scrivere su un giornale. Ma allo scrivere quello che eventualmente può trasformarsi in un racconto o in un romanzo. E' una maledizione perché si impone e trascina con forza come un vizio penoso da cui è quasi impossibile liberarsi, poiché niente lo sostituisce. Ed è una salvezza. Salva l'anima prigioniera, salva la persona che si sente inutile, salva il giorno che si vive e che mai si capisce a meno che non si scriva. Scrivere è cercare di capire, è cercare di riprodurre l'irriproducibile,è sentire fino in fondo sentimento che altrimenti rimarrebbe solo vago e soffocante. Scrivere è anche benedire una vita che non è stata benedetta. Che peccato che io sappia scrivere solo quando la "cosa" arriva spontaneamente. In questo modo mi trovo in balia del tempo. E, fra uno scrivere sincero e l'altro, possono passare anni ... E sono nata per scrivere. La parola è il mio dominio sul mondo. Ho avuto fin da bambina diverse vocazioni che mi chiamavano ardentemente. Una era scrivere. E non so perché, è stata questa quella che ho seguito. Forse perché per le altre vocazioni avrei avuto bisogno di un lungo apprendistato, mentre per scrivere l'apprendistato è la vita stessa, che vive in noi e attorno a noi. E'che non so studiare. E, per scrivere, l'unico studio è semplicemente scrivere. Ho cominciato ad addestrarmi a sette anni per avere un giorno la piena padronanza della lingua. Tuttavia, ogni volta che mi accingo a scrivere, è come se fosse la prima volta. Ogni mio libro è un debutto penoso e felice. Questa capacità di rinnovarmi completamente man mano che il tempo passa è ciò che io definisco vivere e scrivere."

 CLARICE LISPECTOR: SCRIVERE