Grande maestro della fotografia,
Doisneau è il rappresentante più famoso della cosiddetta "fotografia
umanista", ossia quel tipo di sensibilità visiva che pone l'accento sulla
condizione disagiata dell'uomo nella società. Nasce il 14 aprile del 1912 a Gentilly, un sobborgo
di Parigi che segnerà profondamente la sua estetica e il suo modo di guardare
le cose. Diplomatosi incisore litografo alla scuola di Estienne decide di
abbandonare quella strada per gettarsi nella realtà viva e cruda delle
periferie, dimensione che all'epoca nessuno considerava. Sceglie poi di
utilizzare un mezzo d'espressione al tempo ancora guardato con un certo
sospetto: la fotografia. Di fronte ad un quadro simile, in cui nella cultura
ufficiale dominava l'ostilità e l'incomprensione per questo genere di
produzione artistica, Doisneau tira diritto, spinto dalla sua voglia di
guardare le cose da un punto di vista non convenzionale e profondamente
convinto del valore documentale e artistico dello scatto. Negli anni trenta
sceglie dunque definitivamente che quella sarà la sua strada. Lo sforzo
maggiore è quello di donare dignità e valore alla fotografia, cercando di
svincolarla da una considerazione meramente "professionale",
occupandosi in primo luogo di soggetti che non interessavano a nessuno e che
non avevano nessun valore commerciale. I suoi committenti di allora, infatti,
si chiamavano Renault, Vogue, ecc. ma sono ben presto abbandonati in favore
dell'Agenzia Rapho. La collaborazione con l'agenzia comincia nel 1946 e durerà
tutta la vita, per quasi cinquant'anni, fino alla fine della sua vita. Soggetto
privilegiato del fotografo: Parigi. Produce una serie di scatti innovativi,
geniali e dominati da una forte carica umana: sono le immagini che lo hanno
reso celebre. Quello che colpisce i fruitori e gli operatori del settore è che
non si tratta di una Parigi convenzionale, quella che domina negli ambienti
della pubblicità, della moda, dei giornali o del cinema ma è una Parigi di
piccola gente, di arie di fisarmonica, di grandi e bambini, i cui sguardi
trasudano umanità e tenerezza. Tra le produzioni di questo periodo si possono
citare le celebri "Banlieues" tra le quali spicca la storica
"Banlieue la nuit" del 1947, a quelle dedicate ai bambini: "Le
dent" (1956), "Les Frères" (1934), "Les petits enfants au
lait" (1932). Immancabili i celebri "baci" da "Le
baiser de l'hôtel de ville" a "Baiser blottot" e al
"Baiser valsé" anch'essi datati 1950. Inoltre, il suo modo di
lavorare poco convenzionale e fuori dagli schemi della
"professionalità" generalmente accettata, si dimostra anche nel suo
stile.
La sua carica interiore possiamo capirla ascoltando direttamente le sue parole: "un fotografo animato dal solo bisogno di registrare quello che lo circonda non aspira a ottenere risultati economici e non si pone i limiti di tempo che ogni produzione professionale comporta". Per lui la fotografia è prima di tutto un bisogno privato, un "desiderio di registrare", il soddisfacimento di una necessità che toglie al suo lavoro ogni elemento di calcolo e ogni ricerca di perfezionismo sterile.
Le foto circolano prima tra le persone a lui vicine e vengono utilizzate dagli amici qualora ne abbiano bisogno. Parlando ancora del suo lavoro e dell'impulso che lo spinge a creare, in un'intervista si legge: "Vi spiego come mi prende la voglia di fare una fotografia. Spesso è la continuazione di un sogno.
Mi sveglio un mattino con una straordinaria voglia di vedere, di vivere. Allora devo andare. Ma non troppo lontano, perché se si lascia passare del tempo l'entusiasmo, il bisogno, la voglia di fare svaniscono. Non credo che si possa "vedere" intensamente più di due ore al giorno". Il tempo, il suo dilatarsi e compenetrarsi con il suo essere fotografo è forse insieme all'istinto, una delle note dominanti del suo lavoro. L'artista preferiva essere definito poeticamente come un "pescatore di immagini" e sentiva la necessità di immergersi completamente nella realtà.
Come in un suo tragico scatto, stavolta malriuscito, il grande fotografo scompare ultraottantenne nel 1994, avendo coronato il suo sogno, insieme ad altri eminenti colleghi, di dare un valore e una dignità alla fotografia che prima non aveva.
Liberamente tratto da Biografieonline
La sua carica interiore possiamo capirla ascoltando direttamente le sue parole: "un fotografo animato dal solo bisogno di registrare quello che lo circonda non aspira a ottenere risultati economici e non si pone i limiti di tempo che ogni produzione professionale comporta". Per lui la fotografia è prima di tutto un bisogno privato, un "desiderio di registrare", il soddisfacimento di una necessità che toglie al suo lavoro ogni elemento di calcolo e ogni ricerca di perfezionismo sterile.
Le foto circolano prima tra le persone a lui vicine e vengono utilizzate dagli amici qualora ne abbiano bisogno. Parlando ancora del suo lavoro e dell'impulso che lo spinge a creare, in un'intervista si legge: "Vi spiego come mi prende la voglia di fare una fotografia. Spesso è la continuazione di un sogno.
Mi sveglio un mattino con una straordinaria voglia di vedere, di vivere. Allora devo andare. Ma non troppo lontano, perché se si lascia passare del tempo l'entusiasmo, il bisogno, la voglia di fare svaniscono. Non credo che si possa "vedere" intensamente più di due ore al giorno". Il tempo, il suo dilatarsi e compenetrarsi con il suo essere fotografo è forse insieme all'istinto, una delle note dominanti del suo lavoro. L'artista preferiva essere definito poeticamente come un "pescatore di immagini" e sentiva la necessità di immergersi completamente nella realtà.
Come in un suo tragico scatto, stavolta malriuscito, il grande fotografo scompare ultraottantenne nel 1994, avendo coronato il suo sogno, insieme ad altri eminenti colleghi, di dare un valore e una dignità alla fotografia che prima non aveva.
Liberamente tratto da Biografieonline
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