domenica 11 maggio 2014

UMBERTO BELLINTANI


Umberto Bellintani, poeta italiano, nasce a San Benedetto Po (Mantova) nel 1914 e muore nel 1998. Studia alla scuola d’arte di Monza per diventare scultore, ma è richiamato alle armi nel ’40 e viene fatto prigioniero in Germania dal ’43 al ’45. Rientrato in Italia, abbandona l’arte, lavora come segretario in una scuola e si dedica alla poesia. Pubblica la prima plaquette, Forse un viso tra mille nel ’53, seguita da Paria due anni dopo; nel ’63 appare la sua raccolta riassuntiva E tu che m’ascolti. Nonostante gli autorevoli consensi (tra gli altri di Parronchi, Montale, Chiara, Luzi, Fortini, Bàrberi Squarotti, Forti, Caproni), decide di non pubblicare più, tenendo fede all’impegno preso con se stesso fino agli ultimi anni della sua vita. Nel 1998, infatti, esce Nella grande pianura, che è la sua opera più importante, comprendente la raccolta del ’63 e un’ampia scelta di inediti dei trentacinque anni successivi. La poesia di Bellintani non è collocabile in linee di tendenza o scuole del Secondo Novecento, estranea com’è, infatti, tanto all’ermetismo quanto agli sviluppi della scuola lombarda, per non dire dell’avanguardia. I versi di Bellintani sono un esempio di grande energia e di apertura visionaria. L’ambiente – per quanto a volte trasfigurato – è quello per lui più naturale: il Po con il suo paesaggio e con le figure e i tipi che vi si aggirano.
Il senso dell’esistere che traspare nelle sue poesie è quello di una particolare religiosità, sempre ai limiti del blasfemo, grazie alla quale Bellintani è capace di osservare la miseria sordida e la grandezza, la crudeltà e la carica di affetti di una vita umile eppure formidabilmente accesa, a volte, dall’apparire di presenze esotiche e gigantesche. Il tutto in una pronuncia molto personale, sempre a mezza via tra il naïf e la forbitezza d’accenti, in perfetta corrispondenza con la tensione e lo stile morale dell’autore, nobilissimo e primitivo al tempo stesso, tendente alla coloritura mitizzante eppure fortemente immerso nel reale quotidiano.                                      
Tratto da la Stampa .it

Bocca di balena
Bocca di balena dai centomila denti d’oro
per ingoiare stanotte la terra,
io sono un pescatore di anguille sulla barca
per lasciarle poi libere ondulare
nella corrente del fiume sino al mare.

Bocca di balena dai centomila denti d’oro
il tuo occhio di luna m’ha seguito quando scesi
a sciogliere la barca questa sera
dalla riva e abbandonarmi alla corrente
della vita notturna e poi solare.

Paria
Poveri affaticati nelle membra,
servi delle gleba, paria,
per noi la morte è riposo.
Tu luna invano risplendi in mezzo al cielo;
e non ci cavi dagli occhi che sudore 
antica stella che illumini nei boschi 
a maggio il canto malinconico dei cùculi.
Non siam che miseri lombrichi nella mota,
siamo concime, la ruota, la carrucola
e non v’è pena che noi non si conosca.

Dolce chiude l'ora di sera
Forse non esiste Dio. Forse 
solo il rapporto
fra noi esiste e gli alberi
annosi o appena d'anni
uno e le erbe
e i coccodrilli e il buon tepore
della sera. Non v'è
che poi la morte ed altro ancora
innanzi ad essa da soffrire. Ma poi tutto
per lei si placa; e in noi s'alterna
timore d'essa e quieta attesa
del suo riposo:
così
oggi è da porre questo giorno fra non quelli
di sofferenza e sgomento: dolce chiude
l'ora di sera col risorgere di una
ampia stellata. Dunque
forse soltanto un dolcissimo rapporto
fra noi e il tutto fa ponte e il tempo passa
lento e veloce.

Nessun commento:

Posta un commento